Testo di Luisa Chiumenti

Si è riaperta dopo i restauri, a Pompei, alla presenza del ministro Dario Franceschini, la Villa dei Misteri che conserva uno dei più vasti capolavori della pittura antica, fra mosaici e pitture distribuiti negli oltre 70 ambienti che ne costituiscono il complesso architettonico. Ma in effetti la Villa  non era  mai sta chiusa del tutto (eccetto gli ultimi tre mesi dedicati alle rifiniture e alle pulizie), perché i restauri sono stati eseguiti a mano a mano, per lotti.  . E’ noto come la Villa dei Misteri, chiamata in un primo momento “Villa Item”, sia stata  portata alla luce tra il 1909 e il 1910 grazie ad uno scavo condotto dalla stesso proprietario del terreno nel quale si trovava e come poi, un’indagine più approfondita sia stata svolta tra il 1929 e il 1930, in seguito all’esproprio effettuato dallo Stato Italiano. E fu così che un anno dopo furono rese pubbliche alcune tavole a colori che rappresentavano gli affreschi della villa, ad opera dell’archeologo Amedeo Maiuri.  E’ bene sottolineare che lo scavo di tutto il complesso non è stato a tutt’oggi ancora completato, anche se la piccola parte di costruzione che manca, secondo gli archeologi, non contiene elementi di valore..

 

Durante lo scavo non furono ritrovati oggetti di particolare interesse e soprattutto la zona d’ “otium” apparve quasi priva di suppellettili, segno che la villa era in ristrutturazione; reperti invece furono ritrovati nella parte rustica. Nella villa all’ritrovati anche  numerosi resti umani, fra i manufatti rinvenuti  nella villa fu  rintracciata la statua di Livia in abiti da sacerdotessa, oggi conservata all’Antiquarium, che di mostra come la villa sia stata costruita nel II secolo a.C. avendo il periodo di massimo splendore durante l’età augustea, quando fu notevolmente ampliata ed abbellita. .Dotata di ampie sale e giardini pensili e situata  in una posizione panoramica,  fu eretta da un nobile sannita a pochi passi dal mare. Ma in seguito al terremoto del 62 d.C. cadde in rovina, così come il resto della città, e fu trasformata in villa rustica con l’aggiunta di diversi ambienti ed attrezzi agricoli come torchi per la spremitura dell’uva la costruzione fu infatti adibita alla produzione e alla vendita del vino. Della villa non si conosce il proprietario, ma solo il nome del custode che l’ha abitata durante l’età augustea, Lucio Istacidio Zosimo, come testimoniato da un sigillo a pianta quadrata e si trova su una collinetta dalla quale si godeva una meravigliosa vista sull’odierno golfo di Napoli; poggia in parte su un terrapieno ed in parte è sostenuta da un criptoportico, formato da arcate cieche ed utilizzato come deposito.

L’ingresso principale, in parte ancora da scavare, si trova lungo una via secondaria che forse si collegava alla via delle Tombe; nella zona dell’ingresso è posto il quartiere rustico e servile con diversi ambienti adibiti a panificio, cucine, forno, torchio con il tronco a testa d’ariete e cella per i vini. Superato un piccolo ingresso, quattro stanze che rappresentano il cuore della zona signorile: si tratta del peristilio a sedici colonne, costruito tra il 90 e il 70 a.C., l’atrio maggiore, senza colonne e decorato con paesaggi nilotici, il tablino ed una veranda absidata con vista mare, creata nel I secolo, da cui oggi si entra. Ai lati di queste stanze si sviluppano vari altri ambienti, come cubicola, che nel corso dei lavori di ampliamento della villa hanno perso la decorazione in secondo stile per passare a quella in terzo stile il triclinio del grande fregio ed il quartiere termale, dismesso dopo il terremoto del 62 e utilizzato come deposito e come scala per l’accesso al piano superiore, il quale affacciava sul peristilio e accoglieva le stanze utilizzate dalla servitù. Le decorazioni parietali si differenziano a seconda del periodo storico durante le quali sono state realizzate: il tablino è affrescato con pareti nere[7] e decorazioni in stile egittizzante, tipiche del terzo e quarto stile, mentre altri affreschi in secondo stile furono mantenuti anche durante gli ampliamenti, come in un cubicolo, dove sono rappresentate scene del mito di Dioniso e nel triclinio dove si raggiunge uno nei massimi esempi di questo stile.

Si tratta di una raffigurazione del I secolo a.C., opera di un artista anonimo del luogo, che ha lavorato su tutte le pareti dell’ambiente, dipingendo personaggi a grandezza naturale, con una tecnica chiamata megalographia, ispirata fortemente alla pittura greca. Ancora incerti sono il soggetto e il significato dell’affresco: si tratta di una serie di sequenze, dieci per l’esattezza, che potrebbero raffigurare uno spettacolo di mimi o i preparativi per un matrimonio oppure momenti di un rito: secondo alcuni studiosi, tale rito potrebbe essere quello dell’iniziazione di una sposa al dio Dioniso. Il significato delle pitture, studiato da sempre e non ancora interamente chiarito, si innesta,  al centro, al di sopra di uno zoccolo decorato che funge da podi, mostra,  al centro della parete di fondo la coppia divina Dioniso e Afrodite (o Arianna) e, sulle pareti laterali da un lato il mondo di Dioniso e l’iniziazione ai suoi misteri, dall’altro la preparazione della fanciulla alle nozze e una matrona che assiste pensosa alla scena. Le figure sono  ad altezza reale e si muovono come su un palcoscenico. La prima scena raffigura una donna che si acconcia i capelli, circondata da amorini che reggono degli specchi e segue poi una figura seduta su di un trono (probabilmente la matrona che controlla le fasi del rito oppure l’iniziata che ripensa alla tappe effettuate durante il rito).

La terza scena è quella della catechesi dove a sinistra è affrescata la sposa con il velo in testa, al centro una sacerdotessa con ai piedi un fanciullo che legge testi sacri e alla destra la sposa che porta tra le mani i testi sacri. Segue poi la scena dell’agape: una sacerdotessa seduta di spalle versa del vino su di un ramo di mirto, attorniata da due assistenti e da un sileno che suona la lira; la quinta scena raffigura una satiressa che allatta un capretto, accompagnata da un satiro che suona il flauto e con la sposa che spaventata dalla situazione cerca di proteggersi avvolgendosi in un mantello; viene poi raffigurata la divinazione attraverso lo specchio rappresentato da un sileno, che in questo caso funge da sacerdote, che porge ad un giovane una coppa nella quale si specchia; la scena di Dioniso e Arianna è la più rovinata della serie e raffigura Dioniso tra le braccia di Arianna; l’ottavo affresco è quello del linkenon e phallos, dove la giovane inizianda è scalza ed è ricoperta per metà da un mantello, nell’atto di scoprire il fallo del dio Dioniso, simbolo di fertilità; la penultima è la flagellazione: l’iniziata è raffigurata in ginocchio, poggiata sulle gambe di un’amica, con la schiena nuda, mentre viene frustata da Telete, figlia di Dioniso e Nicea; la decima e ultima scena, rappresenta la fine del ciclo, con l’iniziata che danza, accompagnata da una ministra del culto, suonando dei cimbali che ha tra le mani. Ed eccoci agli anni recenti e agli importanti lavori di restauro e conservazione (che  si svolsero dal maggio 2013 fino al 2015) , diretti dall’archeologo professor Antonio Varone,  che oltre a spiegare con ricchezza di particolari il lavoro che è stato possibile analizzare intorno alla realizzazione originale di quelle pitture, ha anche illustrato quali siano state le approfondite indagini scientifiche eseguite con il supporto di istituti universitari e di ricerca, chimici e fisici, utilizzando tecniche anche il laser per la rimozione degli strati superficiali di cera dati in passato a protezione delle pitture. Si pensi ad esempio il grande interesse offerto dalla colorazione degli affreschi in cui si coglie la presenza del cinabro, il “minium” fatto venire dall’oriente pur essendo costosissimo: il rosso pompeiano appunto.

Per informazioni:

MiBACT – Soprintendenza Speciale Pompei Ercolano Stabia.

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