TERESA CARRUBBA


Luciano Pavarotti ed io
in occasione dell’intervista

    

?A lui, anche quest?anno, l?onore di aprire la stagione operistica al Teatro Metropolitan di New York, di cui è fiore all?occhiello da ben ventuno anni, con il Rigoletto in un nuovo splendido allestimento, con la soprano June Anderson e il baritono bolognese Leo Nucci. Un ennesimo successo. Una fila incredibilmente lunga di estimatori e amici davanti al suo camerino lo ha dimostrato in modo anche più persuasivo delle pur eccellenti critiche sui giornali all?indomani. Ma nel camerino c?era un antidivo per eccellenza, un Pavarotti semplice e tranquillo, con la gola prudentemente protetta da un asciugamano e con un sorriso aperto, visibilmente soddisfatto dell?interpretazione.?

Così iniziava il mio reportage su Pavarotti redatto alla fine di ottobre del 1989, a New York, per quell?evento teatrale e per il ?Pavarotti Day?, un omaggio della città e degli americani al grande tenore.
    

    
E così continuava?.

Il debutto nell?ambìto Teatro Metropolitan, vent?anni prima non era stato senza problemi.

?Fu un disastro?, mi conferma Pavarotti ?Dovevo cantare la Bohème e fui colpito a tradimento dalla Hong Kong flu, un?influenza terribile che mi lasciò senza forze e senza voce per ben quattro mesi. Riuscii a mala pena a esibirmi il primo giorno ottenendo, non so come, un inaspettato successo. Acclamazioni del pubblico e una critica del New York Times che mi portò in trionfo. Tutto sommato il mio debutto al Metropolitan, ad onta del virus asiatico, risultò addirittura superiore a quello di Caruso?. Fu premiata la sua voce, che venne fuori nella sua potenza nonostante tutto, ma forse, date le circostanze, si può pensare a un aiuto della buona stella, che non guasta mai.

E dovette pensarlo anche Pavarotti visto che, come quasi tutti gli artisti, è vittima di una buona dose di superstizione.

Si tratta in realtà di un?affascinante amalgama di senso religioso e di superstizione. Gli eventi della vita lo hanno portato a credere fideisticamente a una mano protettiva al di sopra dell?uomo, ma è capace di sentirsi depresso e insicuro se gli vengono meno piccoli “ancoraggi”, come ad esempio un chiodo arrugginito e storto sulle tavole del palco prima di entrare in scena. Perché non assecondarlo? I suoi impresari, preoccupati per il successo della serata, assoldano un “addetto al chiodo” che con nonchalance lascia cadere il prezioso amuleto in un punto credibile del pavimento. Tutti, tacitamente, sanno.Compreso il Maestro che fa finta di niente, purché la sua esigenza scaramantica sia soddisfatta. E la recita è salva.


    
Comunque il suo vero portafortuna è ben altro. La sua “ugola d?oro”, le sue corde vocali “baciate da Dio”, come critici ed estimatori sostengono. ?L?unica volta che mi sorpresi della mia voce?, racconta Pavarotti ?fu quando Joan Sutherland mi spinse a interpretare “La figlia del Reggimento” di Donizetti al Covent Garden, nel 1966. Una delle sue arie contiene nove “do” alti in una singola frase. Joan mi suggerì di cantarla senza trasposizioni. Pensai che fosse matta, ma ci provai. La romanza riuscì completa con tutti i suoi nove “do”. Nessun cantante era mai riuscito ad eseguirli, tutti erano scesi ai “si” naturali. L?orchestra saltò in piedi applaudendo. Nemmeno in seguito un altro tenore ha saputo arrivare a quel tetto?.

Pavarotti ha avuto il dono di una voce lirica non grave, che s?innalza facilmente negli acuti. E? una voce adatta a un vasto repertorio, ma in primo luogo al “bel canto” di Donizetti e di Bellini. ?Alla mia voce piace Donizetti? risponde sempre a chi gli chiede quale opera preferisca cantare.

Il successo Pavarotti lo deve soprattutto alla potenza della sua voce, che per questo va salvaguardata con tutti i mezzi. Il grande tenore è un salutista, un po? per natura, un po? per necessità. Aboliti fumo e ambienti fumosi; niente jogging al Central Park di New York prima di un concerto; mai uscire senza sciarpa al collo se la temperatura non è ottimale. Dorme il più possibile e disintossica le vie respiratorie con due giorni in una stazione termale, appena può.

Estimatore e curioso della scienza medica, pare sappia tutto ciò che serve per preservare il corpo (e soprattutto una parte di esso: la gola) dai malanni che possono essere evitati.

Interroga tutti i medici che conosce sulle malattie più disparate e immagazzina informazioni dove e come può. Il suo interesse e, a quanto pare, la sua preparazione gli sono valsi la laurea honoris causa in medicina dall?Università di San Francisco.
    

    
Quando si accorse di avere una voce da coltivare?

Fin da bambino. Cantavo con mio padre i vespri nella nostra chiesa di Modena, avevo una bella voce da contralto. A casa ascoltavamo continuamente i dischi di tutti i più grandi tenori di allora. Poi, a dodici anni, ebbi l?opportunità di assistere alle prove che Beniamino Gigli fece nel nostro Teatro Comunale. Fui così preso dall? emozione sentendolo cantare che, alla fine, mi precipitai verso di lui annunciandogli, convinto, che anch?io sarei diventato un tenore”.

 

E nacque Luciano Pavarotti…

In un certo senso. Feci per molti anni l?apprendista tenore presso un grande professionista, Arrigo Pola.

In quel periodo, l?unica occasione che ebbi di esibirmi fu piuttosto insolita.

Un mio amico mi chiese di fare una serenata alla sua ragazza, fuori campo. Doveva apparire lui il vero cantante. Proprio come Don Giovanni e Cyrano. Il brano scelto era tutt?altro che romantico: “Di quella Pira”, dal Trovatore. Ma era un pezzo molto noto, poteva far presa. L?inizio vero della mia carriera fu segnato da una serie di concerti e recitals in varie città dell?Emilia. Non furono sempre dei successi. A volte lottavo contro lo scoramento».

 

Lei è un solido ottimista…

Lo sono diventato. Presi coscienza del valore della vita a soli nove anni, in tempo di guerra. Le strade di Modena erano disseminate di cadaveri. Fu una cosa terribile. Divenni adulto di colpo. Nacque in me un profondo attaccamento alla vita che vidi a un tratto così fragile e provvisoria.
    

    
Lei stesso è stato vicino alla morte più di una volta…

Avevo dodici anni. Un giorno sentii che le gambe non mi reggevano. Fui preda di una febbre fortissima ed entrai in coma. Dissero che si trattava di un?infezione del sangue e mi procurarono, con molta difficoltà (era il 1947) la penicillina. Neanche quella preziosa invenzione scientifica mi guarì. Quando finalmente mi svegliai, fu per sentire qualcuno che diceva: ?Non c?è più niente da fare?.

Mi sentii morire sul serio. Ma, miracolosamente, ne venni fuori.

 

Poi l?incidente aereo del 1975…

Tornavo a casa per Natale, da New York. il volo sull?Atlantico fu perfetto. Fu nei pressi di Milano che cominciarono i guai. Una fitta nebbia ci impediva di atterrare. Fu molto più che un contrattempo. Correvamo un grosso pericolo. Ancora una volta vidi la morte davanti agli occhi. Feci il voto, in cambio della salvezza, di cantare il Te Deum nel Duomo di Modena, insieme a mio padre. A quel punto il pilota fece forse la più bella manovra della sua carriera risparmiandoci un tragico schianto. Quando fui in cima alla scaletta, mi sentii venir meno. Ebbi solo la forza di dire: “Un miracolo, il secondo”

 

E? comprensibile il suo attaccamento alla vita. Questo spiega anche il suo interesse per la medicina?

Forse. Ma ho sempre avuto una grande ammirazione per questa branca della scienza. Ho avuto l?onore di conoscere Barnard e Sabin, per i quali ho fatto dei concerti di beneficenza. Sono due figure eccezionali. Mi hanno spiegato molte cose delle loro esperienze.

 

Sapere tanto di medicina, l?aiuta anche nella sua carriera?

Molto. La voce di un cantante lirico nasce dai polmoni, non dalla gola. E? indispensabile conoscere bene la fisiologia dell?apparato respiratorio e dei muscoli che sostengono il diaframma. Perché è grazie al diaframma che l?aria passa attraverso le corde vocali trasformandosi in suono. Nel 1965 andai in tournée in Australia e lavorai insieme a Joan Sutherland, una delle voci più notevoli del nostro tempo. Ricordo quanto fosse incredibile per me sentirla cantare, sera dopo sera, mantenendo sempre lo stesso eccezionale livello di esecuzione.
    

    
Cominciai a credere che avesse un segreto e che avrei dovuto conoscerlo per eliminare in me la paura di perdere la potenza della voce. La studiai e la tempestai di domande. Capii che la base del suo metodo era il diaframma. Quando Joan provava mi faceva addirittura posare la mano sulla sua cassa toracica per rendermi conto di cosa succedeva. Mi mostrò vari esercizi per rinforzare i muscoli coinvolti e cominciai a lavorare sodo. Al ritorno in Italia, dopo quattro mesi, il mio laringoiatra fu sorpreso nel constatare quanto fossero migliorate le mie corde vocali. Niente più sforzi a loro carico. Era tutto spostato sul diaframma.

 

E? per rendere più agile il diaframma che si è liberato di qualche chilo di troppo?

Qualche? Ben trentasette. E con non poche rinunce. Da buon modenese amo Lambrusco e tortellini, apprezzo molto la cucina mediterranea e sono un fanatico dei piatti cinesi.

Ma detesto i chili in più e li combatto strenuamente. Credo di sapere ormai tutto sugli apporti calorici di ogni alimento e sui trucchetti psicologici che aiutano a non farsi ossessionare da una dieta. Per esempio è bene aspettare il più possibile sia prima di iniziare un pasto sia tra una portata e l?altra. La certezza di poter mangiare di lì a poco acquieta lo stomaco. E? consigliabile alzarsi da tavola prima di essere sazi, se ci si distrae un po? l?appetito si esaurisce nel giro di un quarto d?ora. E? una questione di allenamento e di buona volontà.