Testo di Anna Maria Arnesano e Foto di Giulio Badini

Una strada sterrata di appena 85 km, un continuo saliscendi a 3-4.000 m di quota accessibile per ora  soltanto a fuoristrada, camion e trattori, sembra destinata a cambiare – nel bene e nel male – la sorte e la vita in uno degli angoli più reconditi e sconosciuti dell’universo himalayano. Stiamo parlando della strada inaugurata nel 2013 che percorre il fondovalle del Mustang, da Jomsom fino a Lo Manthang. Il Mustang costituisce un’appendice nel centro-nord del Nepal, al di sopra della catena himalayana, che si insinua in profondità nell’altopiano tibetano e chiusa a sud dai massicci dell’Annapurna e del Dhalaugiri. In pratica una vallata grande un terzo della Valle d’Aosta, da sempre accessibile solo a piedi con lunghi e faticosi percorsi di almeno 5-7 giorni (solo andata) e passi innevati situati a 5.000 m, tagliata longitudinalmente in due dal fiume Kali Gandaki, affluente del Gange, e circondata da vette mozzafiato alte 7-8.000 m. Prima della strada i trekker potevano accedervi  a piedi o a cavallo con guida locale in completa autonomia per mangiare, dormire e trasporto bagagli, pagando una salata tassa giornaliera per un massimo di tremila permessi all’anno.

Un deserto roccioso d’alta quota, brullo e assolato, ad un’altezza media di 3.600 m, dove acqua e vento hanno scavato gole profondissime e spettacolari erosioni differenziate nelle rocce, con le ossidazioni dei minerali che creano colori psichedelici a tinte calde in contrasto con il verde di campi e pascoli, abitato da un totale di seimila persone di lingua, cultura, e religione buddista tibetana, privo di elettricità e telefono. Ma anche uno stupendo e incontaminato libro di geologia a cielo aperto con incredibili erosioni, canyon, gole e grotte, dominato da una luce penetrante e dai colori delle rocce e delle rare costruzioni, mentre in cielo volteggiano aquile e avvoltoi. Nel suo tratto inferiore presso Kagbeni, il Kali Gandaki origina le gole più profonde della terra. Le uniche macchie di verde sono costituite da qualche albero e piccoli campi d’orzo su terreni terrazzati attorno ai minuscoli villaggi, costruiti con mattoni di fango ma tinteggiati con colori vivaci, dove si vive miseramente allevando yak, cavalli, pecore e capre e usando il letame come combustibile. La scarsità femminile viene compensata ricorrendo alla poliandria, dove una donna sposa contemporaneamente più fratelli. L’economia si basa su allevamento, un po’ di agricoltura, e la produzione di bei maglioni di lana che  verranno poi venduti a Kathmandu. Non raggiungibile neppure dal monsone, piove poco e nevica relativamente meno; in estate le giornate sono temperate, vento a parte, ma di notte si sfiora lo zero.

Fin dal 1380 ha rappresentato uno dei tanti principati feudali tibetani con il nome di Regno di Lo, chiuso in sé stesso e quasi inaccessibile, anche se nel suo territorio passava una non certo affollata via commerciale di scambio di sale, lana, cereali e spezie tra Tibet e Nepal, tra Cina e India, sulla quale hanno transitato per millenni anche monaci e pellegrini per portare la parola del Budda. Nel 1951 è stato inglobato nel regno nepalese (repubblica dal 2008, dopo la rivolta maoista), ma con ampia autonomia, tanto che l’attuale raja – grande allevatore di cavalli e di mastini tibetani – gode ancora di ampia considerazione. Negli anni 1960-70 la regione era inaccessibile in quanto principale base logistica dei guerriglieri tibetani khampa che si opponevano con le armi all’occupazione cinese della loro nazione, mentre fino al 1992 era inaccessibile agli stranieri; il primo occidentale a penetrarvi è stato un funzionario dell’Onu nel 1950. Questo isolamento ha consentito di conservare intatta la cultura tradizionale tibetana, della quale rappresenta l’ultimo baluardo, molto meglio di quanto non si possa riscontrare nel Tibet attuale, distrutto e snaturato dall’invasione cinese. Sparsi un po’ ovunque si incontrano dzong (antiche fortezze), chorten (tombe di lama) e stupa (reliquari buddisti), muri mani  (muretti votivi con preghiere incise) e gompa, monasteri buddisti e templi a partire dall’ VIII secolo, quindi tra i più antichi in assoluto, decorati con preziosi affreschi considerati trs i più elevati capolavori dell’arte tibetana, thangka (pitture religiose su tela), ruote di preghiera, statue di metallo.

La religione prevalente è il buddismo lamaista tibetano di scuola Sakya, introdotto nel 1400, più socievole e aperto e meno metafisico. Il capoluogo, e antica capitale reale, porta il nome di Lo Manthang, un minuscolo paesino medievale di mille anime a 3.780 m racchiuso entro possenti mura con 14 torri e una sola porta (unico esempio di città murata tibetana rimasta intatta in assoluto); all’interno da visitare il palazzo reale,, che custodisce antichi oggetti sacri d i inestimabile valore, alcuni gompa, la scuola di medicina tibetana, negozi e mercati. In città soltanto il raja può entrare a cavallo. In maggio-giugno vi si svolge un importante festival religioso, il Tiji, immutato da secoli e che richiama fedeli da ogni parte, con suoni, danze costumi e maschere per ricordare l’eterna lotta tra bene e male. Una curiosità: i loba, gli abitanti della regione abituati da sempre a vivere in una realtà fuori dal tempo, hanno due nomi, uno tibetano e l’altro nepalese.