Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone

Mi sedetti ad un tavolo fuori dall?unico bar sulla piccola e polverosa piazza del paese per dissetarmi con una tazza di tè. Una tazza di tè di coca peruviana, l?unica che venga servita a Ollantaytambo, nella sacra valle degli Inca, non troppo distante dall?antica capitale Cusco, una città d?oro di una bellezza rara, che i Quechua (meglio consociuto come il popolo Inca) chiamavano Qos?co, ?l?ombelico del mondo?.


Il te di coca non è fatto con la cocaina, seppure contenga tracce dell?alcaloide, oltre a potassio, magnesio, ferro e una serie di vitamine; è un supplemento nutrizionale e rimedio farmaceutico in uso da secoli in Perù. Le scure foglie galleggiavano nella tazza ed il sapore era blando e regalava un retrogusto amaro. Mi avevano consigliato di berne tanto, poiché dovrebbe aiutare a mitigare i fastidi provocati dal mal di montagna, o soroche come lo definiscono i Peruviani; e quella mattina mi serviva perché ero atterrata poche ore prima a Cusco, a 3.326 metri sopra il livello del mare.


Durante il viaggio in pullman, diretti verso la Valle Sacra, ci eravamo fermati a circa 4.000 metri d?altezza. Il mio primo pensiero fu che mi trovavo a circa metà del monte Everest. La sosta era per ammirare l?immensa vallata dell?Urubamba, il fiume che gli Incas ripercorsero per trovare il luogo in cui edificare il loro santuario sacro di Machu Picchu.


Al lato della strada alcune donne vendevano cappelli colorati, sciarpe e poncho. Due bambini, di forse 3 e 5 anni, le loro guance cotte e segnate dal sole e dall?aria rarefatta, giocavano accanto alle loro madri. Ed io mi sedetti con loro. La bambina, più piccola, sorrideva timida, ma il fratello non volle incontrare mai il mio sguardo. Nei suoi occhi lo stoicismo secolare e quella rassegnazione di una gente per cui la sopravvivenza non fu un?opzione all?arrivo dei conquistadores.


L?unico elemento a ricordami di quanto Oyallantaytambo sia in alto era il mio fiato corto mentre, sotto al massacrante calore dei raggi a mezzogiorno, salivo i terrazzamenti della fortezza Incaica, fino in cima al tempio costruito oltre 700 anni fa.

 

Fu da queste terrazze che i conquistadores soffrirono una delle loro poche sconfitte, in un conflitto armato contro l?Imperatore Inca, Manco Inca, che costrinse Hernando Pizzarro (fratello di quel Francisco famoso per aver sterminato il popolo Quechua o Inca) alla ritirata, merito soprattutto dell?inespugnabile fortezza.


Ahimé il trionfo di Manco Inca fu breve; Pizzarro tornò con una truppa talmente numerosa da costringere l?Imperatore a fuggire nella sua fortezza di Vilcabamba, nel cuore della foresta.

 

I canali di scolo lungo le strette strade ciottolate di Ollantaytambo sono una delle tante testimonianze della pianificazione urbana Inca ancora visibile in Perù, ed ancora oggi gli abitanti del paese vivono nelle case che sorgono fitte intorno a cortili protetti dalle alte mura di  blocchi enormi di pietra, tipiche delle costruzioni Inca.

 

Mentre sorseggiavo il mio tè una bambina mi avvicinò per vendere cartoline. Aveva sette anni e si chiamava Maitè. Le chiesi perché non fosse a scuola ?perché oggi è domenica, e vendo cartoline per poter portare i soldi a mia madre? mi disse.

 

Poi fu lei a chiedermi da dove venissi e quando le risposi dall?Italia mi sorrise e disse ?Il presidente Ciampi, il papa Benedetto e la Juventus?, accostando una squadra di calcio ai nostri due più illustri compatrioti. Comprai alcune cartoline e lei mi salutò correndo verso l?altro lato della piazza dove stava parcheggiando un pullman turistico in arrivo.


Il vento caldo che soffiava dalla valle alzava polvere e terriccio che non aiutavano il sapore poco entusiasmante del mio té, e così decisi fosse meglio entrare dentro il bar.

Ero l?unica cliente, ed un cameriere venne correndo verso di me per porgermi la sedia. Come Maitè, anche lui era del luogo, Quechua di un paese non distante.

 

Gli Incas di oggi sono bassi, asciutti e dalla pelle scura. Molti poi mostrano il famoso profilo con l?importante naso curvo. Proprio come il cameriere. Si chiamava Moises e veniva da un villaggio nelle montagne sopra Ollantaytambo. Parlammo del tè, che giurava essere una vera e propria panacea. Quando vide che mi guardavo intorno mi chiese se mi piaceva il locale.


?L?abbiamo appena ridecorato, e queste sono le nuove luci? mi spiegò, puntando il dito verso grandi maschere di metallo dietro le quali potenti lampadine gettavano luce sulle pareti. Gli risposi che l?effetto era molto suggestivo. ?Ci siamo fatti consigliare da un curandero. Ci ha detto quali materiali usare; il legno per il pavimento, il metallo sulle pareti e pure l?acqua? disse indicando il lavandino di acciaio inossidabile dietro al bancone.

 

?Ci ha dato anche un protettore?, disse guardando verso una buia alcova ricavata nella parete. ?Un protettore?? ?Si, il curandero ci ha detto che in vita era stato un buon uomo e che il suo teschio ci avrebbe protetti?.  Annuii finendo il mio tè, e Moises mi diede una manciata di foglie di coca. ?Tienine una nel tuo portafoglio, porta fortuna?.


Tornando verso il pullman la nostra guida Clara, anche lei Quechua, di scatto si infilò in una stradina laterale, per tornare accompagnata da due donne dagli abiti dai colori sgargianti, con piccoli bambini legati alla schiena.  Ridevano tra di loro e ci disse che erano amiche, provenienti da un paesino confinante con il suo, nell?alta montagna.

 

Si chiamavano Santuzza e Ambrosia ed avevano rispettivamente 19 e 23 anni. Facemmo loro domande sui loro bambini, piccoli  fagotti avvolti in coloratissime coperte, con degli intricati cappelli ad incorniciare i loro rosei visi. La figlia di Santuzza, primogenita, aveva solo quattro mesi e si chiamava Roxanna, mentre Ambrosia portava sulla schiena il suo terzo figlio, Giulio Cesare.  Clara ci disse che scendevano in città la domenica vestite con gli abiti tradizionali per fare soldi posando davanti alle macchine fotografiche dei turisti. Il resto della settimana lavoravano i campi e si occupavano delle loro famiglie.


Ci disse che avrebbero cantato una tipica canzone Quechua per noi. Una nenia più che una canzone, cantata con voci basse, quasi sospirate. Una melodia difficile da ricordare o fischiettare. Rimasero a salutarci finché non le perdemmo di vista.

 

Fugaci incontri di un caldo e ventoso pomeriggio. Me se si è interessati alla natura umana, per quanto brevi, questi incontri sono uno dei grandi piaceri del viaggiare.