TERESA CARRUBBA



    

Nell?antica Roma, se la repubblica fu austera, l?età imperiale era improntata a uno stile di vita lussuoso e gaudente. Il mutamento dei costumi si manifestò soprattutto a tavola, i pasti frugali, consumati per lo più davanti al focolare domestico, divennero cene sontuose innaffiate da colossali bevute.

Nobili e ricchi disponevano addirittura di sale da pranzo differenziate a seconda della stagione e nella varietà delle pietanze avevano raggiunto una squisita raffinatezza che nella tavola dei più agiati spesso degenerava in ricercatezza eccessiva.

In realtà che i piatti dell?antica Roma fossero alquanto elaborati ce lo conferma il trattato De Re Coquinaria di Apicio costituito da cinque libri e cinquecento ricette singolari. Il manuale, nonostante ci sia pervenuto in condizioni ben diverse dalla stesura originale perché sensibilmente deformato dagli amanuensi in una edizione del IV secolo in latino volgare, e pur usando espressioni tali da renderci difficile l?interpretazione corretta di disquisizioni e ricette, è un chiaro attestato e una conferma del fatto che la cucina presso i romani era molto complicata.

 

 

Di prima mattina il Romano consumava lo jentaculum, un pasto solitario, assunto senza alcuna formalità e ?senza neanche lavarsi le mani?, come sottolinea Seneca, ma piuttosto sostanzioso: pane, formaggio, carne e frutta. Spesso si trattava degli avanzi della cena a cui si era stati invitati la sera precedente. Marziale ci racconta infatti che agli ospiti era consentito portarsi via ciò che era rimasto nel piatto avvolgendolo in un tovagliolo portato con sé a quello scopo. A metà giornata si faceva un rapido spuntino, prandium, a base di carne fredda e frutta.
        

    
La cena dei Romani iniziava presto, dopo la sferzata tonificante del bagno alle terme,cioè dopo l?ora sesta (mezzoggiorno), indicata da Giovenale., o dopo l?ora ottava (le quattordici), indicata da Marziale. Praticamente si andava a cena tra le tre e le quattro del pomeriggio e non vi si restava mai fino a notte, salvo nel caso di una festa di gala. Un orario da convitto. Solo l?orario, naturalmente, perché il menu e i divertimenti erano tutt?altro che morigerati.

La sala da pranzo era già di per sé un lusso, ricca com?era di statue e decorazioni. Nerone, nella sua Domus Aurea sul Colle Oppio, disponeva di numerosi ambienti per banchetti ornati con madreperle e pietre preziose e con i soffitti semoventi dai quali, sul più bello, piovevano petali di fiori ed essenze profumate.Una delle sale, di certo la più stravagante, era circolare e ruotava continuamente, o forse era solo il soffitto a girare, a imitazione del movimento della terra. C?era di che divertirsi!

 
L?occhio aveva la sua parte, ma anche la gola non poteva lamentarsi. A una cena di tutto rispetto, di ferculum, cioè di portate, ne venivano servite almeno sei e ognuna di esse prevedeva più pietanze. Tutto prendeva inizio dalla gustatio, l?antipasto. Niente di impegnativo: ostriche, gamberoni, salsicce, cacciagione, tordi, rognone,cipolle, asparagi e crudité varie! Con l?antipasto, per questo detto anche promulsis ,si beveva il mulsum, il portentoso vino mielato a cui il centenario Romilio Pollione attribuiva la sua longevità.

    
Una miscela energetica composta da un chilo e mezzo di miele e sei litri di vino, secondo la ricetta di Columella. Va da sé che il vino doveva essere di quello buono, almeno un Falerno o un Messico.

A questo punto è già d?obbligo una breve sosta. C?e chi fa della musica, chi recita versi greci, mentre un anfitrione fa circolare tra gli ospiti un piccolo scheletro d?argento sulla cui base si legge il macabro avvertimento: ?Divertiti finché sei in tempo?.

 

E, forse per moltiplicare i piaceri materiali, si riprende a mangiare. Così si avvicendano pasticci di lingue di fenicotteri, porchette,fagiani farciti, ghiri, ma anche murene, gamberi,orate e storioni, impreziositi da salsine alcoliche in cui l?aceto si sposa alla menta o al miele, come nel caso dell?oxymeli all?uso greco tanto apprezzato da Catone, o il mosto all?origano, fino a quel pregiato miscuglio chiamato oenogarum. Si tratta di una variante del classico garum, la mitica salsa che deve la sua pubblicità al gran parlare di Apìcio, a base interiora di pesce azzurro (il misterioso garos) tenuto in salamoia per mesi con erbe aromatiche. La nuova versione, decisamente più popolare dell?originale,consisteva nel diluire il garum con vino buono e addolcirlo con miele. Ricca di vino anche la cosiddetta salsa di Catio, un gastronomo che compare nelle Satire di Orazio suggerendo curiose ricette. La salsa in questione conteneva vino puro, l?olio più rinomato di quei tempi, quello di Venafro, erbe aromatiche e zafferano di Corycos.
    
Ghiottonerie irresistibili per i Romani che a tavola ritempravano il corpo e lo spirito. I conviti erano movimentati da spettacoli di acrobati, giocolieri e buffoni, i derisores, che rallegravano gli ospiti con storielle divertenti e facezie.


    
In CIBI E LUXUS DI ROMA IMPERIALE - Sapori,vizi e misteri delle libagioni dei Cesari (prefazione di Carlo Cannella – Edizioni Qualevita) l?autore Stanislao Liberatore, vero ricercatore storico e letterario, con particolare interesse per la Roma del triclinium, fa un colto excursus delle abitudini smodate e lascive di crapuloni e imperatori che vedevano nel convivium l?espressione più efficace del potere, dell?opulenza e del gusto del vivere.

Attenta la descrizione di cibi e di abitudini, stimolante la coreografia dei banchetti, godibilissimo il racconto di aneddoti, colto il resoconto di un?epoca, quella della Roma imperiale, che evoca immagini di grandezza e sontuosità. Il libro di Stanislao Liberatore condensa in sé le forme del saggio e del romanzo e del manuale, con uno stile fluido e ricercato, divulgativo ed informato. Un libro insomma che si legge tutto in una volta.

 

 

CIBI E LUXUS DI ROMA IMPERIALE

Sapori,vizi e misteri delle libagioni dei cesari

di Stanislao Liberatore

prefazione di Carlo Cannella

Edizioni Qualevita

Pagg.190 – Euro 14,50