Testo e Foto di Pamela McCourt Francescone



 

Sono modeste le case, molte alzate su basse palafitte e con tetti di paglia, alcune dall’aria traballante, allineate lungo i due lati della stradina polverosa che declina verso il fiume Mae Kok, un tributario del grande Mekong.  Si scende tra galline che razzolano, cani che dormono, bambini che schiamazzano e donne Akha vestite con i loro costumi tradizionali dove predomina il nero, con delle rifiniture in rosso e con tanti monili  in argento. In cima alla strada una delle pochissime strutture in muratura, la chiesa cattolica. Infatti molti Akha si sono convertiti al cattolicesimo, anche se le credenze animiste ancestrali tipiche delle minoranze etniche sono dure a morire, e quindi spesso vengono praticati riti religiosi sincretici che fondono diversi convincimenti.  In fondo alla  strada, sul bordo del fiume, si apre una distesa con baracche in legno che vendono souvenir, piccoli ristoranti con bassi sgabelli in plastica  intorno a tavoli minuscoli e una gabbia che contiene un ciclopico anaconda che viene tirato fuori per essere drappeggiato intorno al collo dei turisti per scattare qualche foto ricordo.



 

Il villaggio, Ruammit, non è lontano da Chiang Ra, nel cuore del Triangolo d’Oro nel nord della Thailandia. Originariamente un insediamento Karen, oggi ospita diverse tribù come i Hmong che sono originari dalla Cina meridionale, i Lahu dal Tibet e gli Akha che si dividono il discreto “successo” imprenditoriale di cui gode il villaggio grazie al fatto che molti degli uomini sono mahout,  addestratori di elefanti. E quindi ogni giorno arrivano turisti ansiosi di provare il brivido di una passeggiata a dorso d’elefante o di divertirsi per qualche ora facendo rafting sul fiume su modeste zattere in bambù che gli uomini del villaggio costruiscono, tagliando i robusti fusti nelle sconfinate foreste verdi che coprono le pendici più basse delle montagne. Mentre le donne, soprattutto quelle Hmong,  vendono coloratissimi vestiti, belle collane e cinte in argento.



 

Gli Akha sono tra le minoranze etniche meno abbienti delle tante tribù residenti nel Triangolo d’Oro della Thailandia settentrionale.  Originari della Mongolia, fanno parte della grande famiglia Sino-Tibetana alla quale appartengono anche i Karen, parlano una lingua vicina a quella birmana,  e nei secoli si sono spostati verso sud creando insediamenti prima in Laos e in Birmania e poi in Thailandia. Molti degli Akha presenti nella zona di Chiang Rai vivono in piccoli villaggi a più di 1.000 metri di altitudine. Sono ancora agricoltori di sussistenza che coltivano riso, soia e verdure e allevano maiali e polli,  anche se alcuni villaggi sono entrati a fare parte del Royal Project fondato 30 anni fa da Re Bhumibol per migliorare le condizioni di queste popolazioni che vivono nelle zone più remote del Triangolo d’Oro. Grazie al progetto reale è stata sradicata la coltivazione  del papavero da oppio, offrendo a questa gente nuove attività come la coltivazione di fiori, caffè, frutta e verdura  e la produzione di oggetti d’artigianato.  



 

Non sono pochi i giovani Akha che abbandonano i loro villaggi isolati per andare a lavorare nelle grandi città ma questa migrazione crea notevoli problemi perchè molti di loro, come altre minoranze, non sono cittadini thailandesi. Sprovvisti di documenti che permetterebbe loro la libera circolazione nel paese, hanno un permesso di soggiorno che li autorizza a vivere unicamente nelle vicinanze dei loro villaggi. Di conseguenza  in città  spesso sono costretti ad svolgere i lavori più umili, e non sono poche le ragazze che finiscono nei giri loschi della malavita e della prostituzione.  



 

Con il ritorno di chi aveva optato per una piacevole passeggiata a dorso d’elefante nella campagna circostante, ci aspetta un piccolo spettacolo organizzato dagli abitanti del villaggio. Infatti gli Akha tramandano la loro cultura millenaria attraverso canti e danze.   Il primo ad esibirsi sulla piazzola è lo sciamano, un piccolo uomo nerboruto, dai lineamenti tesi e con una bandana azzurra fasciata intorno alla testa. Tenendo in mano due lunghe spade, e con sorprendente agilità, esegue una danza frenetica, saltellando, piroettando e mettendosi in pose minacciose, sempre brandendo con destrezza le sue spade.  Scorgiamo due gruppi di giovani, le ragazze da una parte, i maschi dall’altra; le prime, nascondendosi dietro timidi sorrisi sono vestite di bianco in segno che sono ancora vergini. Posano per terra lunghe aste di bambù e poi le muovono  energicamente a destra e a sinistra battendole ritmicamente,  mentre i  giovani danzatori saltellano tra un asta e l’altra, senza mai farsi prendere le caviglie o sbagliare un passo. Ora tocca a due ragazzine che eseguono una canzoncina delicata, suonando strumenti a fiato fatti di canne molto lunghe che emettono un suono esile e dolce. Bellissime e sorridenti, si muovano con grazia al ritmo della musica, mentre i cappellini di perline colorate che portano in testa luccicano e scintillano catturando i raggi del sole.



 

L’ultimo interprete è un uomo vestito di nero con una sciarpa di merletto rosso fuoco annodata stile turbante sulla testa, che suona uno strano strumento fatto di canne che fuoriescono da una piccola zucca.  Intorno a lui, in semicerchio, alcune donne Akha con i loro caratteristici copricapi fatti di tante  grandi palline d’argento che incorniciano il viso.   Il suonatore balla mentre suona, piegandosi sinuosamente al caldo timbro del suo flauto, mentre le donne battono le mani e cantano allegramente. Lasciamo il villaggio portando via con noi il ricordo dei modi cordiali e mansueti di questa gente, per la quale l’arrivo di un pulmino carico di turisti rende la vita meno onerosa e concede loro preziosi momenti di spensierata allegria. 

 

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