Testo di TERESA CARRUBBA e Foto ARCHIVIO COLUMBIA TURISMO

Pechino-Mosca sul Trans Siberian Intourist Express. Un viaggio che evoca immagini di grandezza, di mistero e di paesaggi sconfinati. Un sogno per “viaggiatori”, per i figli di quell’avventura chiamata Grand Tour seguita da ricchi giovani dell’aristocrazia e della borghesia europea a partire dal XVII secolo. Fu lo zar Alessandro III, nel 1891, ad appoggiare la costruzione della  ferrovia Transiberiana ritenendo che fosse uno tra più importanti eventi della storia dell’Impero russo perché avrebbe collegato le regioni ricche di risorse naturali della Siberia alla rete ferroviaria del resto della Russia. Un’impresa molto dispendiosa, a giudicare dalla cifra stimata dalla Commissione della costruzione della ferrovia: 350 milioni di rubli d’oro! Ma il lungimirante Zar forse non immaginava che proprio quella ferrovia sarebbe stata la base di un sogno.  Oggi si può ripercorrere quell’antica tratta Pechino-Mosca (o viceversa) trasformando il trasferimento tout court  in un viaggio leggendario intriso di racconti d’altri tempi e , perché no?, anche del lusso leggiadro della Belle Epoque. Di quel periodo gaudente il Trans Siberian Intourist Express conserva l’eleganza nelle carrozze ristorante e di intrattenimento; sono quelle storiche, risalgono ai primi del Novecento, all’inaugurazione della Transiberiana. Mantengono intatto tutto il fascino della boiserie, dei pannelli dipinti, del legno imbibito di storia e di avventura, dei ricchi viaggi d’altri tempi. Ottomila chilometri, 7 fusi, tre Paesi: Cina, Mongolia e Russia, attraversati nella comodità di un treno storico ma con tutti i comfort  moderni . Il viaggio dura 15 giorni e prevede un volo dall’Italia a Pechino, da dove inizia l’avventura in treno.

Il primo impatto con Pechino è stato disorientante. Non era per le dimensioni. Di Pechino all’inizio mi sfuggiva la sagoma, la struttura, la legge intima che rende ogni città un organismo vivo. Intendo la Pechino moderna, naturalmente. Una metropoli asiatica in continua espansione non è semplicemente una copia dilatata delle grandi città occidentali. Pechino si moltiplica dentro se stessa, avvolgendosi in spazi sempre più piccoli e ramificati. Non è una geometria unica, ma una linea che continua a proliferare nicchie e ancora nicchie; la sua struttura potrebbe ricordare l’estenuante tecnica delle “scatole cinesi”. Una Pechino liquefatta, con i suoi grattacieli tecnologici stemperati da una luce quasi sempre lattiginosa, i grandi viali squadrati e le caratteristiche stradine laterali, rappresenta l’essenza della Cina, con le sue contraddizioni: desiderio di modernità e preservazione della storia. Il simbolo della grandezza di Pechino è Tian’anmen, la piazza più grande al mondo, con i suoi 440.000 metri quadrati. L’occhio umano non ce la fa a coglierla tutta insieme e neanche il grand’angolo di una macchina fotografica. Indescrivibile l’effetto che fa trovarsi in quell’immensità, non solo di spazi, ma di potere, di storia, di suggestione. Cordoni interminabili di persone si snodano lungo il perimetro di Tian’anmen, in attesa di accedere ai luoghi fulcro della Piazza e di Pechino: La Città Proibita e il Mausoleo di Mao Tse-tung. Al Mausoleo sono diretti molti ragazzi, soprattutto cinesi, un vero e proprio pellegrinaggio. I giovani pensano a Mao come a colui che ha fatto grande la Cina.  Altro cult di Pechino, La Città Proibita, che, come dice il nome, in passato era interdetta al popolo. La porta di accesso, sovrastata da una gigantografia di Mao, è sempre accalcata di visitatori, allettati, oltre che dalla storia, anche dal fascino del “proibito”, appunto. L’ingresso è protetto dalle guardie, così come del resto tutta la Piazza, da militari in divisa o in borghese e da telecamere installate sui vari lampioni d’illuminazione. Dai ritmi frenetici del centro cittadino alla Città Proibita ci sono pochi metri, ma secoli di storia li separano. Anche la Città Proibita, il più grande complesso di edifici imperiali del mondo, con il suo impianto articolato rispecchia la struttura di Pechino.

Da un padiglione si entra dentro l’altro e da questo ad un altro e ad un altro ancora, passando per sterminati cortili, scalinate, logge, camminatoi, vicoli angusti tra due muri altissimi ed un punto di fuga lontano ed inquietante. Un labirinto di gloria o di perdizione che non lascia intravedere uscite, che fa dimenticare, per attrazione ipnotica, l’esistenza di un mondo fuori. Alle spalle di questo concentrato di storia, di potere e di ricchezza, vive una realtà ben diversa,  quella della vecchia Pechino, vera, senza fronzoli e senza gloria: Hutong. Un quartiere popolare di casupole basse, per evitare che qualcuno potesse guardare dall’alto l’Imperatore in visita, dove il grigio non è solo il colore del cielo. Un mondo a sé, fatto di volti semplici, di voci, del cigolio delle biciclette.  Ogni vicolo si ripiega in modo tortuoso rivelando il retro di una scena diversa, per poi interrompersi o sbucare in tutt’altro luogo. Smarrirsi tra le case di Hutong  è facilissimo, i tetti a pagoda salgono e scendono tutti uguali. Di fatto qui nessuno si lamenta, nemmeno i giovani, i quali preferiscono vivere a Hutong dove si spende poco, si sta sempre in compagnia e si è lontani dalla convulsione della città.  Ogni giorno alcuni abitanti del quartiere, prendono il proprio risciò e partono per il giro tra le vie di Hutong sperando di far salire a bordo qualche turista. E’ il modo migliore per entrare nel vivo di questa realtà, lungo il canale, tra i negozietti, i chioschi dove arrostiscono spiedini che emanano un odore forte di spezie ed amicali scenette tra uomini come una partita a carte o a mahjong su un tavolo velocemente allestito sul marciapiede. Ma Pechino è soprattutto storia, quella imperiale, in qualche modo intrisa di superstizioni e tradizioni propiziatorie.

E’ il caso, ad esempio, del Tempio del Cielo, costruito nel 1420, che costituiva la sede dei sacrifici al cielo e alla terra da parte degli imperatori delle due dinastie Ming e Qing (1368-1911). Un po’ fuori Pechino, invece, il Palazzo d’Estate, che merita un discorso  a parte. Ci si arriva con una di quelle tipiche imbarcazioni con un vistoso drago dorato a mo’ di polena e si sbarca accanto ad un meraviglioso ponte da percorrere a piedi  tra ringhiere di esili colonnine ed altrettante teste di leone. Nel Palazzo d’Estate c’è un itinerario fra grotte, rocce, minuscole pagode e scalinate scavate nella pietra, chiamato “Passeggiata dentro un dipinto”. Tanti giardini, padiglioni, stagni coperti da splendidi fior di loto,  corridoi a loggia, tra cui uno in legno lungo 728 metri, le cui travi a soffitto sono dipinte con miniature tipiche della pittura classica orientale. Logge e giardini, in epoca imperiale inaccessibili al popolo, ora diventano punto d’incontro tra amici, anche in là con gli anni. Essi si siedono sulle balaustre per giocare a carte, si raggruppano per suonare ed intonare un canto, per chiacchierare o passeggiare tranquilli. Chi viene a Pechino, non può non raggiungere la Grande Muraglia, l’imponente e monumentale costruzione difensiva iniziata più di duemila anni fa. E’ considerata una delle sette meraviglie del mondo, Patrimonio dell’Umanità, bene protetto dall’Unesco. Il muro si snoda compiacendo le forme della natura , adagiandosi come un serpente gigante e sinuoso su per le alture per poi scivolare nelle valli. Oppure come le spire di un ideogramma cinese dal significato misterioso e accattivante, nitido all’inizio e poi sfumato come un acquarello man mano che si allontana verso l’orizzonte. Inizia il viaggio in treno. La prima tappa è Datong, con la suggestione di un’arte rupestre spettacolare praticata dal 453 al 495 d.C. da decine di migliaia di artigiani. Cinquantunomila tra statue e altorilievi raffiguranti Budda, giganteschi o piccolissimi, perfettamente rifiniti o che emergono dalla roccia suggerendo il tema buddista della metamorfosi. Ad Erlian, ultimo contatto con la Cina, si cambia treno perché le rotaie cinesi hanno una larghezza diversa. Un trasbordo all’altezza delle premesse.

Sulla banchina, ad attendere i passeggeri, uno steward e un cameriere per ogni carrozza, eleganti nella divisa e nei modi, così come è elegante il treno. Si prende confidenza con le eleganti cuccette dove qualcuno ha già sistemato il bagaglio, come si conviene ad un’organizzazione di alto livello e poi ci si riunisce nella carrozza soggiorno dove è difficile non rimanere coinvolti dall’atmosfera calda e ricca di quei rivestimenti in legno, di quelle abat-jour che diffondono il languore di un passato che rincorriamo come il paesaggio che scorre oltre il finestrino. Il viaggio riprende alla volta della Mongolia che si preannuncia con un panorama ricco di effetti naturali che man mano s’impoverisce di elementi. Dalle fitte foreste, alle steppe smisurate, all’altipiano con cime oltre i 4000 metri che condurranno gradualmente al deserto del Gobi meridionale con le sue spettacolari dune alte fino a 300 metri. Qui si nasconde una curiosa località, Bayan Zag, uno dei maggiori giacimenti di scheletri e di uova di dinosauri. Oltre il finestrino passano veloci le praterie del Gobi centrale con mandrie di cammelli e yak e le bianche gher, o iurta, le abitazioni dei mongoli. Semplici tende rotonde allestite con teli di feltro su un’impalcatura di legno, facili da smontare e rimontare, come si conviene ad un popolo di nomadi. Raramente, le iurte si raggruppano formando un piccolo villaggio dove a volte si offrono cibo e danze in costume ai rari turisti di passaggio. Quello che un tempo fu uno dei più importanti imperi dell’Eurasia grazie al famoso condottiero Gengis Khan, crogiuolo di razze e religioni diverse, punto strategico per il commercio, oggi appare una terra fuori dal tempo, che espone con discrezione i segni del passato, che lascia aperto il contatto con i suoi abitanti per scoprire le loro peculiarità come la medicina tradizionale e lo sciamanesimo, nonché la forte religiosità nei confronti del rinato buddismo lamaista. Il monastero di Gandan, scuola lamaista, centro spirituale e sociale dell’antica Urga, l’attuale capitate mongola Ulan Bator. Centocinquanta monaci istruiscono i giovanissimi aspiranti lama  e accolgono pellegrini in preghiera. L’attrazione, una vistosa statua di Budda alta 26 metri, coperta da una lamina d’oro e pietre preziose.

Alla volta della Russia, passando per la Siberia. Il tempo in treno è occupato dalle formalità della dogana russa mentre il Trans Siberian Intourist Express s’insinua in un paesaggio del tutto nuovo, la taiga. Larici , abeti e soprattutto betulle affollano le fitte foreste che aprono alla Siberia , un habitat definito dalle caratteristiche locali del disgelo estivo responsabile della ripresa vegetativa delle specie arboree. Quando gli alberi diradano, dal treno s’incrociano sparuti gruppi di casette di legno con infissi colorati e orticello. Niente strade, niente veicoli. Siamo nella Repubblica di Buriazia, la cui capitale Ulan Ude onora ancora Lenin con un’enorme monumento in piazza. Nelle vicinanze, il più grande monastero buddista tibetano della Russia, Ivolginsk Datsan , formato da vari templi  dai tetti dorati e coloratissime statue. Oggetti sacri con la trascrizione di orazioni, e  mulini di preghiera su cui è inciso il Mantra tibetano e che i fedeli fanno girare, sempre in senso orario, simulando il ciclo vita-morte.

Altra notte in viaggio sul mitico treno. L’alba sarà quella del Lago Baikal , che il Trans Siberian Intourist Express costeggerà per ore percorrendo una linea ferroviaria riservata. Il lago Baikal. Immensa fonte di acqua dolce, popolato da pesci che nascono solo qui. Un ecosistema unico, dove vive la nerpa o Phoca siberica, unica foca d’acqua dolce al mondo,  che fa del lago Baikal  una delle destinazioni più stimate dai naturalisti. E’ in questa regione che si sono insediate tre religioni: lo sciamanesimo tibetano, il buddismo e il cristianesimo ortodosso, portato dai russi nel 1643, quando videro la prima volta le acque del Baikal.

Il treno avanza e passa il confine dell’ultimo fuso. Si giunge a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan. Dalla Cina importava tè e a sua volta esportava pelli di ermellino. E poi le stoffe, la mitica “via della seta” passava proprio da qui. Forse è per la sua posizione strategica tra Oriente e Occidente che Kazan, la capitale del Tatarstan, ad 800 chilometri ad est di Mosca, vive fin dal passato un florido commercio. La città bassa si allunga sulle rive del lago Kaban e sulle due sponde del Canale Bulak che un tempo costituiva il limite di separazione tra la Kazan russa e quella tartara, un confine che quasi si annullò nell’Ottocento quando il commercio e l’industria di Kazan si svilupparono. Il Canale servì allora per il trasporto di merci dal Volga e da Kazanka. Il cuore pulsante di Kazan è nell’area sottostante il Canale Bulak , dove era insediato l’antico popolo tartaro. Ma è la parte alta della città la sintesi della storia, dell’arte, della cultura. A partire dal Cremlino, inserito nel patrimonio culturale dell’Unesco, secondo solo a quello di Mosca, un magnifico insieme architettonico che porta le tracce di molti secoli, chiuso in un giro di bianche mura di cinta con le caratteristiche feritoie e 13 torri. Persino Ivan il Terribile ebbe ad esaltarne la bellezza. Nel Medioevo i bastioni del Cremlino erano di travi di quercia e gli edifici in legno e pietra. La sua costruzione più importante è la torre Suyumbika, assurta a simbolo e orgoglio della città, che prende il nome dall’ultima regina di Kazan, la quale pare si sia gettata dalla sua cima quando la città fu occupata dalle truppe moscovite. Kazan vive in uno spirito di straordinaria tolleranza tra etnie e religioni diverse . Russi e tartari, musulmani, ortodossi ed ebrei, che sembrano far parte di una grande famiglia pur conservando ovviamente ognuno i propri luoghi di culto e le proprie tradizioni.

Ultima tappa del magnifico viaggio transiberiano, Mosca. La silhouette frastagliata di quelle cupole a cipolla svettanti in croci d’oro, ieratiche e solenni, disegnano la sacralità di un popolo che ha costruito con coraggio la grande storia della Russia. Mosca. Immensa e grandiosa. Rinascita continua e immutabile incrostazione di civiltà, d’arte e di fede.

Il primo impatto è con la Piazza Rossa. Mozza il respiro. Una bellezza che penetra e si gioca tutta nelle emozioni. Intime. Inesternabili. Riduttiva ogni parola, insufficiente ogni aggettivo. Va vista. Qui l’uomo riprende le sue vere dimensioni. Non può sentirsi grande. Se non nel pensare che è proprio dalle mani degli uomini che nasce tanta imponenza. Almeno quella urbanistica, architettonica, estetica. Ma il fascino intrinseco della Piazza Rossa, no. Quello non è stato progettato al tavolino di ingegneri e architetti. E’ sedimentato nei secoli in una preziosa concrezione di eventi storici e politici, di riti sacri, di imprese commerciali.

Già nel Quattrocento ospitava l’ animatissimo Gran Mercato, antesignano degli odierni magazzini Gum, voluti da Lenin  negli anni Venti in uno splendido stile Liberty, qui detto “neorusso”. Quello stesso Lenin onorato in gran pompa, fino alla fine del periodo sovietico, nel suo austero mausoleo di granito rosso, al lato ovest della Piazza.

Una Piazza che sprigiona, ancora oggi, tutto il potere, il fasto e la solennità dell’epoca imperiale. Da qui, attraverso le porte una volta ritenute sante, zar, reali stranieri e patriarchi, entravano nel Cremlino.

Il Cremlino. Fulcro vitale, fucina di poteri, sacrario del culto. Un mondo a parte. Cristallizzato nel tempo. Tutto il misticismo della cultura russa sembra concentrato nel bianco abbacinante delle cattedrali e nell’oro delle cupole a schiera, nei solenni palazzi del potere, nel ricco museo dell’Armeria.  Un bagno nella storia della Grande Madre, che va gustato con la calma e la curiosità di un visitatore attento.

 

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