Testo di Annarosa Toso

Parione, rione storico nel cuore di Roma, vanta uno dei luoghi più belli della città: piazza Navona, la mia piazza e dei tanti bambini di allora, che come me trascorrevano lì tutti i pomeriggi a giocare. E’ la piazza Navona degli anni cinquanta con i “nonnetti” che trascinavano la loro cassetta di legno legata al collo piena di sacchettini di bruscolini, noccioline e liquirizie. Con dieci lire si potevano comprare dieci pescetti o un sacchetto di bruscolini; con cinque lire una rotella o una stringa di liquirizia. Qualcuno li chiamava anche i “caccolettari” perché vendevano delle liquirizie piccole e nere e delle minuscole mentine di zucchero colorate, bianche, nere e verdi. Poi c’era il “fusaiaro” che vendeva i lupini e nella stagione autunnale anche le olive che costavano 50 lire, per un cartoccio di carta gialla pieno fino all’orlo. Piazza Navona set cinematografico strepitoso di tanti film di quegli anni, dove si intuisce che erano solo i romani ad abitare piazza e dintorni e non come accade oggi, che i residenti non hanno nulla a che vedere con l’autenticità del quartiere. Saranno anche amanti della Roma antica, ma pur sempre degli intrusi.

La domenica si andava a messa – si cambiava spesso chiesa – c’era solo l’imbarazzo della scelta tra le tante del mio rione. Io per la funzione della domenica proponevo la chiesa di San Pantaleo, proprio sotto casa e perché l’officiante era un vecchietto veloce che non si dilungava in noiose prediche. Mi piaceva anche Sant’Andrea della Valle, così bella e grande e mi distraevo con la storia di Caravadossi che dipingeva la Madonna con gli occhi neri come la sua amata Tosca. Ma non sempre l’avevo vinta io. A volte si arrivava  fino alla Chiesa Nuova o alla Chiesa del Gesù, o addirittura fino a San Pietro, ma questo capitava soprattutto nella domenica delle Palme e a Pasqua. Ma spesso si andava a piazza Navona nella chiesa di Sant’Agnese in Agone. E dopo la messa e l’acquisto del pane fresco e delle pastarelle si faceva l’ennesimo giro per la piazza. Quante volte davanti alla Fontana dei quattro Fiumi del Bernini che rappresentano il Nilo, il Gange, Il Danubio e il Rio della Plata ho sentito il fantasioso racconto dell’eterna rivalità tra il Bernini e il Borromini La leggenda ci racconta che una delle statue guarda terrorizzata verso il campanile e un’altra, quella che rappresenta il Nilo, ha il volto coperto perché non vuole assistere al crollo dell’opera del Borromini. Mi piaceva molto questa storia  e la prendevo per vera. Per la cronaca il campanile della chiesa di Sant’Agnese in Agone è ancora lì e non ha mai dato cenni di cedimento.

E poi c’erano i giochi, perché a Piazza Navona  i bambini  giocavano: a corda, a ruba bandiera, a guerra romana, a nascondino e si andava in bicicletta. Qualche ragazzino, nelle giornate più calde dell’estate, osava entrare nella fontana per fare il bagno e veniva anche rincorso dalle guardie, come si chiamavano allora tutti i rappresentanti dell’ordine pubblico.  Oggi, per i bambini, giocare sulla piazza è quasi impossibile, anche perché venditori  e artisti occupano buona parte della piazza e i turisti non sono gli sporadici attenti visitatori di una volta, ma folle invadenti che vengono scaricate per un giretto, per la foto di rito. Poco il tempo a disposizione dei turisti mordi e fuggi, che non hanno nemmeno il tempo di inoltrarsi nelle vie limitrofe che riservano, invece magnifiche sorprese, come via dell’Anima, l’arco della Pace, la piazzetta del Genio.

Ma la cosa più bella di piazza Navona era la sua trasformazione per le feste di Natale. Già dalla fine di novembre quando l’umidità della sera rendeva viscidi i “sampietrini” e l’odore delle caldarroste impregnava l’aria, piazza Navona acquistava ancora più fascino. Si tastava il fermento per la preparazione delle baracche, il vociare delle persone, i rumori dei martelli sul legno, gli odori dell’inverno. Il primo di dicembre  cominciava la festa. Lo zucchero filato e  i croccantini venivano  preparati su un piano di marmo e molti dolciumi si compravano e si gustavano ancora caldi con un invitante profumo di fragola e caramello. C’era una baracca grande, “Torrone Express”con un omone con i baffi che ammassava lo zucchero filato e piano piano lo intrecciava con altri zuccheri colorati davanti ai bambini che con gli occhi sgranati seguivano tutta l’operazione.

A piazza Navona si trovava tutto l’occorrente per addobbare l’albero di Natale, le palle colorate rigorosamente di un sottile vetro soffiato, le statuine per il presepe di gesso dipinto, il muschio vero e profumato, le prime lucine elettriche a intermittenza. La piazza era completamente circondata dalle baracche tranne tre uscite:la prima su via della Cuccagna, un’altra all’altezza del Senato in Corso Rinascimento, l’ultima su via Agonale accanto all’Arco delle Cinque Lune. Non erano previste uscite di sicurezza anche perché ressa e confusione potevano esserci solo la notte della Befana, al contrario di oggi che piazza Navona è goduta da tutti i bambini di Roma.

Attualmente, la piazza, nel periodo di Natale, ha varchi di uscita molto ampi. Praticamente ogni quattro cinque baracche è stata creata un’uscita di sicurezza. I venditori non sono più degli amabili veraci vecchietti, ma, per la maggior parte, extracomunitari di ogni sfumatura di colore. Però dopo tanti anni la collocazione del grande presepe e delle varie tipologie di merci è rimasta la stessa. Davanti all’Ambasciata del Brasile ci sono i tiri assegni, di fronte i giocattoli, nella parte alta, oltre la fontana dei Quattro Fiumi le luminarie  e gli accessori per adornare l’albero di Natale, i dolciumi, le statuine, le casette e quant’altro serve per fare un bel presepe. Ancora oggi il presepio di Piazza Navona è allestito verso via Agonale e qualche volta si ha ancora la fortuna di ascoltare il suono delle zampogne che aveva il potere magico di sciogliere tutti i rancori, di far sentire  tutti  più accomodanti e più buoni.

Nel pomeriggio prima della notte della Befana, i miei genitori mi portavano a fare l’ultimo giro, per farmi scegliere i doni che desideravo. Poi, dopo cena, loro uscivano e io nel mio letto non riuscivo a dormire per l’emozione dell’arrivo dei doni ma anche per il vociare della gente e il suono dei fischietti ricordato anche dal Respighi nel suo concerto dedicato alle Feste Romane. Tutto questo chiasso arrivava dritto dritto nella mia cameretta e insieme alla tensione dell’attesa, mi impediva di fare quei sonni profondi che solo quando si è piccoli si riescono a fare. Al mattino, mi svegliavo quasi all’alba e correvo in cucina e scrutare se la calzina appesa sotto la cappa la sera prima si era tramutata in una calza grande e rigonfia di doni. Era una grande gioia ma con un pizzico di l’amarezza. Si sa, l’Epifania, tutte le feste si porta via.