Un racconto di un viaggio effettuato in Libia alla fine del 2011, poco tempo prima che scoppiasse

 la disastrosa guerra anti Gheddafi

Testo e foto di Giuseppe Rivalta

La Libia offre sempre nuove geografie, al di là delle mete ormai super gettonate della Tripolitania. La Cirenaica, grande territorio che si appoggia al confine egiziano, sembra quasi ignorata dal turismo, eccezion fatta per le aree archeologiche della costa. Le zone desertiche a Sud di Bengasi, sono praticamente dimenticate anche dagli appassionati di off road, pur presentando interessantissimi spunti naturalistici e culturali. Per questi ed altri motivi, abbiamo voluto percorrere  territori dove, tra l’altro, le vicende italiane dell’ultimo  conflitto, hanno lasciato  cicatrici storiche che non possono e non devono essere dimenticate.

Pianificato il percorso e i numerosi obiettivi, ci siamo incontrati  a Civitavecchia, all’imbarco,con gli altri amici che avrebbero condiviso con noi questo viaggio: i coniugi Benedettelli della Parcaravan (Ancona) con una Land Rover Discovery, Franco Laffi di Sesto Fiorentino alla prima esperienza sahariana, ma con un passato di viaggi in Karakorum, su Iveco VM90, Mariela Desio di Roma (figlia di Ardito Desio il geologo esploratore che in Libia scoprì il primo Petrolio) ed il sottoscritto di Bologna, insieme alla moglie Carla ed  Flavio, il figlio, ormai viaggiatore incallito, a bordo di un Land Rover Defender 110. Tutti i mezzi erano ottimamente preparati per raid sahariani.

Dopo 22 ore di navigazione sulla “Fantastic”, della compagnia Grandi Navi  Veloci, siamo sbarcati il 20 Novembre 2010, a La Goulette e velocemente abbiamo attraversato la Tunisia. Prima di Djerba una doverosa sosta al museo di Mareth. Qui i francesi avevano creato una linea di difesa, lunga 35 km, già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, allo scopo di proteggere i loro territori da eventuali invasioni da parte dell’Italia. Nel Marzo del  1943, avvenne una dura battaglia tra le truppe dell’Asse e le forze britanniche a cui andò la vittoria finale.

La frontiera con la Libia si passa comodamente grazie alle formalità svolte dall’agenzia turistica a cui ci siamo affidati, la SAEFI TURISM SERVICES. L’amico Khaled e suo fratello Fateh, che conosciamo fin dal 2006, ci accolgono con gioia e con loro arriveremo a Tripoli, ospiti di  amici che ci hanno messo a disposizione la casa e famigliari. Il senso di ospitalità, anche qui in Libia, è profondamente radicato nella gente. Al mattino incontriamo alcune persone con cui da tempo intratteniamo rapporti culturali ed editoriali. Il mattino successivo partiamo per Adjedabia ad oltre 700 km di distanza. Buona parte della strada costiera è a doppia corsia con un traffico abbastanza scorrevole.

Da Adjedabia si punta a Sud fino a Jalu. Da qui inizia la pista che porta a Giarabub per poi proseguire verso Siwa , oltre il confine egiziano, fino a Il Cairo. Si tratta di un’antica carovaniera oggi praticamente abbandonata. La nostra agenzia a fatica ha trovato una guida locale per farci attraversare questo tratto di  Sahara, assolutamente poco frequentato, che prende il nome di Grande Mare di Sabbia.

IL GRANDE MARE DI SABBIA

Tra Jalu e Giarabub, si estende un lembo di quello che geograficamente è definito come Grande Mare di  Sabbia per la sua tipica morfologia ad erg . Si estende per almeno 30.000 kmq prolungandosi a Sud verso Cufra ed in territorio egiziano fino a Gilf Kebir. Interessante è la storia delle esplorazioni europee che è iniziata nel 1798 con Hornemann e Rennal. Hamilton aveva osservato la presenza di palme fossili ed era passato per Bir Tarfaui, uno dei pozzi situati lungo la grande cammelliera. Qui era transitato anche Rohlfs  che poi  darà il nome a questo erg. Rosita Forbes, una delle rare esploratrici donna, sarebbe poi giunta a Giarabub dopo essere partita dalla lontana Cufra. Lo studio scientifico di questa regione lo si deve, però, al Prof. Ardito Desio  a partire dal 1926.

Grazie alle sue osservazioni, oggi è possibile ricostruire la Storia geologica di questo territorio cirenaico che, circa 25 milioni di anni fa, era coperto da un mare basso e fangoso come testimoniato da tracce di gesso e di calcari con fossili di conchiglie ed alghe.

Nel Quaternario, mentre il continente europeo era sottoposto alle bizzarrie di un clima glaciale, quaggiù piogge intense crearono una rete idrica attorno a cui si sviluppavano  boscaglie e praterie, laghi e paludi. Questi habitat erano popolati da grandi faune e da gruppi di uomini, prima cacciatori nomadi (culture del Paleolitico), poi divenuti stanziali con l’avvento dell’agricoltura (Neolitico). Ancora oggi si trovano sparsi qua e là, tra la sabbie,  pezzi di uova di struzzo e manufatti preistorici.

Partiti da Jalu, dopo aver comprato pane fresco e verdure, in breve ci siamo trovati, finalmente, in mezzo alla sabbia. Abbassata la pressione negli pneumatici abbiamo iniziato a viaggiare tutti insieme, ognuno alla propria velocità, penetrando in questo mondo apparentemente vuoto e circondati subito da un orizzonte a 360°: questo totale senso di libertà lo dà solo il deserto, o forse il mare aperto. Oltrepassiamo, a mezza mattina, un oleodotto che dal giacimento di Sarir, va a Tobruk, ben segnato sulla nostra carta russa. La traduzione dei nomi dal cirillico non è semplice. La guida ci fa proseguire verso N/E e spesso occorre aggirare i lunghi cordoni di dune. Arriva il tramonto: è  l’ora  di fare il campo.

Come sempre, questi momenti, sono indimenticabili: il sole scende sull’orizzonte tingendo le nubi di rosa che, in breve tempo, diventano rosso fuoco, mentre ad est il “velo della notte” avanza con il suo manto azzurro violaceo. E la Luna? Dopo l’arrivo del buio un chiarore si spande da dietro alle lontane dune e poi appare la falce luminosa del nostro satellite. Con l’arrivo della sua luce scompaiono le miriadi di stelle che fino ad allora avevano impreziosito il “mantello della notte”. Si sta attorno al fuoco, immancabile, fuoco sulle cui braci si sta preparando l’immancabile tè alla menta. Chiacchere, ricordi della giornata trascorsa e poi…in branda. Il silenzio assoluto, senza canti di insetti o di uccelli, è rotto solo, ogni tanto, da uno sferzante colpo di vento che arriva da chissà dove.

Al mattino presto sveglia, quando il sole inizia a dardeggiare nel nuovo giorno. Colazione e il rombo dei motori sconfigge il silenzio del deserto.

Vorremmo arrivare nel punto in cui, nel 1941, un Savoia Marchetti S79 dell’aviazione italiana, precipitò nel “nulla” del Grande Mare di Sabbia con i suoi 4 uomini. Purtroppo per una errata trascrizione delle coordinate, non riusciamo ad identificare il punto con certezza, punto che dovrebbe essere a circa 70 km a Sud, rispetto alla nostra posizione.

Dietro a questo aereo si nasconde una storia drammatica che merita di essere raccontata.

E’ il 1941. Partito da Bengasi per una missione contro un convoglio inglese, L’aereo, che i britannici avevano soprannominato “Il Dannato Gobbo” per la forma della carlinga, dopo aver compiuto la sua missione, durante il ritorno, probabilmente entrò in una tempesta di sabbia sollevata dal vento fortissimo e per la mancanza di riferimenti al suolo e per l’interruzione dei contatti radio, l’aereo, fuori rotta, fece un atterraggio di emergenza (come risulta dalla presenza  del carrello abbassato). Era andato troppo a Sud, in pieno deserto, dopo aver consumato tutto il carburante. Due giorni più tardi, il comando italiano lo dichiarò perduto per eventi bellici. Ma la tragedia, che si consumò, fu conosciuta solo vent’anni dopo. Infatti il 21 Luglio 1960, una squadra di tecnici dell’AGIP, tra cui il figlio di  Ardito Desio, geologo, trovarono a circa 10-15 km a Sud della pista Jalu-Giarabub, il corpo di un aviatore con ancora tra le mani una bussola. Era Giovanni Romanini che aveva percorso, dall’aereo, ben 90 km a piedi per tentare di raggiungere la pista. L’S79 fu ritrovato più tardi e sotto ad un’ala c’erano ancora i corpi rattrappiti dei tre aviatori che erano rimasti in attesa dei soccorsi…mai arrivati. Questa è una delle tante storie che affiorano dalle sabbie infuocate di questo deserto oggi dimenticato per uno strano gioco del destino.

Si punta verso Nord ed arriviamo sotto a delle alture (garet) che altro non sono che ultimi lembi di strati di rocce erose dal vento e da antiche piogge. Alla loro base, sparsi, molti pezzi di pietre nere e lucide, durissime. Più in alto sedimenti con conchiglie ed alghe fossili. Dopo altre decine di chilometri, girando attorno ai cordoni di dune dalle morfologie dolci ci troviamo all’improvviso in una “radura” su cui emergono decine di pezzi di legni fossili neri: si tratta di palme.

Una di queste, se pur in pezzi, la ricomponiamo e ci appare un tronco lungo una decina di metri con la sua parte radicale tipicamente a bulbo. Ancora una volta il deserto ci vuole raccontare il suo lontano passato  fatto di vegetazione e di acqua. Seguendo delle indicazioni registrate sui nostri GPS, arriviamo su un vecchio relitto (rimorchio?) della guerra, molto spostato a sud rispetto alla pista. Più avanti  la guida si ferma vicino ad un copertone coperto da una lamiera: questo è il pozzo chiamato Bir Tarfaui. E’ scavato a mò di cisterna e l’acqua (non molto invitante) è ad appena due metri di profondità..  Uno scorpione chiaro si rifugia sotto a delle pietre: la vita nel deserto è incredibilmente sempre presente. Alle ore 13 ci fermiamo per un veloce pranzo nei pressi di un altro pozzo: Bir bu Salama. Anche questo ha il bordo protetto da un copertone da camion e l’acqua  verdastra è a pochi metri dalla superficie. Questa località fu raggiunta da Desio nell’ottobre del ’26 durante la sua prima missione sahariana. La zona attorno a Giarabub a quell’epoca era molto pericolosa per la presenza di gruppi di ribelli senussi e di contrabbandieri.

Qui vi sono ancora le tracce di una vecchia guarnigione italiana costituita da un recinto di pietre oggi semisommerse dalla sabbia. Tutt’attorno resti di vecchie scatolette e filo spinato. Questo era un punto importante per chi si dirigeva a Giarabub. Il pensiero va a quei poveri soldati che dovevano restare di guardia in questo luogo privo di ogni confort. Verso le 16 siamo finalmente in vista dell’oasi di Giarabub. La guida ci comunica di non uscire dalle tracce, poiché vi sono ancora zone minate! Abbiamo percorso circa 600 km di fuoripista da quando siamo partiti da Jalu. Entriamo in paese mentre il sole comincia ad allungare le ombre sulle torri e le mura dell’ex fortino italiano che circonda il cuore del villaggio. Mi sembra di sentire riecheggiare la famosa canzone che così terminava:

“…Colonnello non voglio encomi

Sono morto per la mia terra,

ma la fine dell’Inghilterra

incomincia da Giarabub! “

Ma non fu esattamente così….

Cerchiamo nel paese qualcuno che conosca la strada per arrivare alla necropoli di Ain Melfa e finalmente un signore sale in macchina con la guida e usciamo dalla piccola cittadina verso Est seguendo il fondo di una valle che in circa 25 km ci conduce verso  la necropoli . Lungo la pista sul lato sinistro del uadi vi sono ancora mezzi militari abbandonati dall’ultima guerra.

LE SEPOLTURE RUPESTRI DI AIN MELFA

Ardito Desio durante la sua permanenza a Giarabub, ebbe l’opportunità di verificare la presenza di un grande sepolcreto rupestre le cui tombe erano state scavate nelle tenere arenarie della sponda sinistra del uadi. In quell’occasione doveva accompagnare, col resto della truppa, un archeologo italiano che stava studiando l’area e che doveva trasportare al Nord una delle numerose mummie trovate. La zona fu poi scelta come avamposto dalle truppe australiane nel 1941.

Nel 2006-2007 la Soprintendenza Archeologica di Cirene ha condotto una campagna di scavi in quest’area. Ma che cosa nasconde Ain Melfa?

Le datazioni dei materiali trovati in questo luogo risultano essere comprese tra il 170 a.C. ed il 140 d.C.  L’abitato, situato sopra alla necropoli rupestre, era ben organizzato con  cisterne ed una canalizzazione per l’acqua. Ancora non si sa se l’insediamento era fisso o stagionale, tuttavia era stato costruito in un luogo ben difendibile, sui bordi settentrionali del bacino di Giarabub.Oltre a questo sito  ne esiste un altro  sulla sponda occidentale della depressione . La zona, già allora, era definibile come oasi per la presenza permanente di acqua. Questo aveva permesso la colonizzazione di pastori e agricoltori. Oltre all’acqua qui è presente in abbondanza il sale che si deposita sulle sponde lacustri, altra risorsa per quelle antiche popolazioni. costruivano cesti e tessuti e raccoglievano uova di struzzo, 2000 anni fa ancora presente.

La grandezza della necropoli, specialmente di Melfa, testimonia la dimensione di questi abitati. Non è un caso che Giarabub sia sempre stato un nodo strategico per le carovane che si spostavano dall’Egitto alla Libia, dal Nord al Sud Sahara e viceversa.

Le mummie trovate ancora intatte ricordano quelle egizie come imbalsamazione. Nel 2006 quando passammo da Tazerbu, più a Sud, verso Cufra, incontrammo anche laggiù un sito dove erano state trovate mummie analoghe, di cui però si è persa traccia.

La notte ci vede accampati fuori dall’oasi di Giarabub che vediamo illuminata in lontananza. Da lì a poco arriva una macchina della polizia per ritirare la fotocopia dell’agenzia su cui sono scritti i nostri dati (in tutto il viaggio credo che ne siano state consegnate ai posti di blocco oltre 50!).

Al mattino partiamo verso Nord : destinazione Tobruk. La strada asfaltata costeggia per oltre 100 km, una linea di reticolati posati dagli italiani durante la guerra, in tripla fila.. A Tobruk visitiamo il cimitero di guerra francese e quello del Commonwealth. Quello tedesco si visita solo su prenotazione. Il cimitero di guerra italiano non esiste più dalla presa del potere del Colonnello Gheddafi!.

Seguirà poi la visita al famoso sito archeologico di Apollonia che dal VII° secolo a.C. divenne il porto di Cirene. Nella tarda Età Imperiale e in epoca bizantina vennero costruiti i maggiori edifici ancor oggi visibili. Tra il 365 ed il 400 d.C. violenti terremoti colpirono la città che poi venne ricostruita, ma il porto alla fine rimase sommerso. Superata Derna arriviamo all’antica Cirene, che ha dato il nome alla regione, Si raggiunge salendo su un altopiano calcareo che presenta fenomeni carsici esterni come doline e polje. Al di sotto vi sono grotte ancora tutte da esplorare. Arrivati quasi in cima alla montagna, a lato della strada, cominciano a sfilare nere aperture nella roccia: è la grande necropoli della città. La tipologia di queste tombe rupestri ricorda quelle del viterbese e di certe zone della Licia in Turchia. Cirene è una grande città con monumenti imponenti. Fu fondata da genti di Santorini (Thera) che avevano lasciato l’isola per problemi demografici: era il 631 a.C. Nel V° secolo venne costruito il grande tempio di Zeus.

La sua abbondante produzione di grano, permise alla Grecia di superare una grave carestia.

Dopo essere transitati da Bengasi con i suoi palazzi di epoca coloniale, puntiamo su Tripoli direttamente. Lungo la strada, a Ras Lanuf, siamo i primi turisti ad essere ammessi in questa grande base petrolifera libica con il solo divieto di fare fotografie.

Arrivati al confine con la Tunisia, riconsegniamo le targhe, in arabo, dei veicoli  e salutiamo i nostri amici che tanto si sono prodigati per la realizzazione di questo interessante viaggio. In Tunisia è freddo quando il 4 dicembre, dopo aver percorso circa 6.000 km, riprendiamo il traghetto che ci riporta in Italia,  ma già architettiamo nuove mete da raggiungere in quello che ingiustamente fu definito “un grande scatolone di sabbia”.