Presentata da Giuseppe Appella alla Casa Italiana Zerilli-Marimò.

Sculture e disegni dell’artista aquinate in una importante mostra a New York

 

 di Michele De Luca

Da Aquino, terra natale di San Tommaso e del poeta satirico latino Giovenale, una delle espressioni più autentiche e originale della scultura italiana contemporanea sbarca nella Grande Mela. Ad uno dei più inventivi scultori italiani della sua generazione, Roberto Almagno, nato appunto nel piccolo, quanto famoso, centro dellla ridente valle del Liri, nel 1954, è dedicata, fino a tutto dicembre, una bella mostra antologica negli spazi della Casa Italiana Zerilli-Marimò nella New York University, curata (insieme al catalogo pubblicato da De Luca Editori d’Arte) da Giuseppe Appella. E’ decisamente un traguardo importante nella carriera ormai lunga e intensa dell’artista, che ha alle spalle, dalla prima lontano esordio alla Galleria Arte Idee di Livorno nel 1976, quasi quarant’anni di successi espositivi, in Italia e all’estero e fondamentali riscontri critici che ne hanno storicizzato l’ormai lungo e intenso percorso creativo. Presente in particolare sulla scena artistica italiana dai primi anni Novanta, da quando, cioè venne chiamato a partecipare a numerose e prestigiose mostre, fra le quali la Quadriennale romana del 1996, Roberto Almagno ha sviluppato un “discorso” creativo di forte personalità, fino ad assumere una fisionomia sicuramente propria, il cui spessore già da alcuni anni aveva interessato la critica più attenta ed avveduta. Presentandolo nel 1992 in una mostra alla galleria L’Isola di Roma, Fabrizio D’Amico aveva colto l’essenza della scultura di Almagno, che usciva in qualche modo allo scoperto dopo un lungo e rigoroso laboratorio condotto nel confronto ideale con la maggiore tradizione plastica italiana (è stato allievo di Pericle Fazzini all’Accademia di belle Arti di Roma)e internazionale, guardando soprattutto a Giacometti, Calder, Melotti e Fontana, ma in un ricercare ed operare “appartato”, fortemente sensibile alla “lezione” tradizionale e genuina della cultura artigiana del suo ambito familiare.

Scriveva allora Fabrizio D’Amico: “Almagno lavora da anni su questo doppio binario, d’una figuralità avventurosa e densa di personali, involgenti memorie, e di una casta, assoluta, quasi intransigente purezza di pensieri formali”. Il legno, che ha rappresentato da sempre il materiale privilegiato per le sue sculture, scelto ed esaltato per la sua qualità di segno poeticamente teso nello spazio e per la sua “insostenibile leggerezza”, si misurano in questa mostra con gli spazi della galleria newyorkese, che impongono alle forme delle sculture tempi e dimensione nuove. Ma parallelamente alla scultura Almagno ha sempre affiancata nel suo percorso la pratica non meno importante del disegno, che con l’arte plastica intreccia un intrigante rapporto simbiotico: la superficie, infatti, della carta usata per i disegni, accoglie segni fatti – ancora una volta – di materia: carbone, fibra di ferro, ruggine, cenere, fissati sulla fragile, ma solo in apparenza, superficie cartacea con la forza del colpo di martello. L’essenzialità formale e l’intensità lirica, che da sempre connotano la ricerca di Almagno, trovano, nelle sue ultime espressioni , come ebbe a scrivere Micol Forti, “una nuova sonorità di espressione, una stratificazione dei toni e delle sfumature, capaci di indicare una possibile amplificazione dei significati, delle letture e delle interpretazioni”.

La mostra offre occasione di ripercorrere gli sviluppi di un coerente e quasi mistico lavoro di faticosa quanto sempre appassionata e appassionante indagine che riuscirà negli anni a scoprire (seguendo – come lui stesso ha detto – una “vocazione quasi religiosa”) tutte le potenzialità espressive del legno, a coglierne l’anima e i più riposti “segreti”. La sua conoscenza e il suo “dominio” su questo mezzo diventano assoluti, riuscendo egli ad asservirlo e piegarlo a tutte le flessioni e contorsioni della propria immaginazione, ma nello stesso tempo a lasciarlo libero di esprimere ogni sua potenzialità intrinseca, rivelando così, la sua curiosità intellettuale verso certi aspetti della cultura orientale, in una sorta cioè  di aspirazione alla levità della materia e alla pregnanza del segno. L’essenzialità formale e l’intensità lirica, che da sempre connotano la sua ricerca, approdano così ad una sempre nuova sonorità di espressione, una stratificazione dei toni e delle sfumature, capaci di indicare una possibile ed inattesa amplificazione di “letture” e di interpretazioni. Va inoltre aggiunto che l’iter creativo di Almagno è sempre animato e supportato da una delicata vena poetica che si riflette suggestivamente, con parole “ispirate”, sulle sue opere, come si legge in alcuni suoi versi: “Guardo i miei segni erranti e senza meta, / sospesi e oscillanti: un vicolo cieco, / dentro lo spazio, verso l’ignoto”.

Circa il procedimento più propriamente tecnico e operativo del lavoro di Almagno dà conto una puntuale analisi del curatore della mostra che si può leggere nel catalogo, da cui emerge fondamentalmente come l’azione di recupero del legno “non ha nulla di fortuito e di inverosimile, tanto da esigere una padronanza assoluta della materia, un lavoro accuratissimo, una perfezione al di fuori del tempo, sostenuta da profonde meditazioni se non calcoli di ordine pratico e temporale”. Un lavoro  intenso e paziente, che – come si diceva – richiede i tempi lunghi della meditazione orientale, in cui motivi biografici si fondono e interagiscono con sovrapposizioni culturali, l’empito personale si confronta con sedimentazioni di universi mutuati ( e fatti propri) dalla storia dell’arte; risultato, come scrive Appella, “la somma degli elementi fisici (legno, colore, movimento, spazio) che mettono insieme l’ordinamento del lavoro di Almagno, unita ad una capacità immaginativa nutrita da profonde riflessioni oltre che da impulsi per la forma pura, scevra da riferimenti iconografici, porta  sempre al dono della sintesi. Molto bella e  suggestivamente calzante la citazione, scelta dal curatore, di Libero De Libero, che traduce in versi il mondo poetico dell’artista: “Nell’eco di legni rugosi / là dentro nessuno sa / d’essere eredi di lontane ombre”.