Dalla “coppia” di pane alla “salama da sugo” e al “pampepato”:

di Luisa Chiumenti

La tipica cucina ferrarese è sempre rimasta ancorata ad una profonda e sentita tradizione, che affonda le sue radici nella corte dei Duchi di Casa d’Este.                                                                           Questi infatti amavano circondarsi di cuochi molto raffinati ed esperti, di cui è rimasta memoria anche nei documenti; basti ricordare ad esempio un vero e proprio “gourmet”, Cristoforo da Messisbugo, che in pieno secolo XVI fu capace di inventare piatti principeschi mai gustati fino ad allora e resi noti da un suo Trattato del 1561. Onorato dalla città, le sue spoglie sono nella splendida chiesa di Sant’Antonio in Polesine. La sua attitudine straordinaria poté essere ben considerata dai duchi d’Este, in quanto il padre, Antonio, si trovava già a servizio della principesca casata, tra il 1491 e 1493.

 

 

Cristoforo ebbe così l’incarico, nel 1519, di “sottosospenditore ducale” al seguito di  Alfonso I d’Este. E da qui la sua carriera progredì sempre fino ad essere consulente della duchessa Isabella d’Este. Per tutto ciò che era necessario per approntare un banchetto principesco, dall’arredamento agli utensili da cucina, alle numerose ricette, meticolosamente dettagliate. Pietra miliare nella storia della gastronomia europea del Rinascimento, è, fra i suoi scritti, il libro di ricette, (pubblicato postumo nel 1549) “Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale”, che accoglie tradizioni e gusti italiani ed europei. Ma cosa si può gustare oggi a Ferrara e nel suo territorio? A cominciare dai primi, fra cui ricorderemo il “pasticcio” e i “cappellacci di zucca” e fra i secondi, ecco la notissima “salama da sugo”, dal gusto così forte da rendere impossibile mangiarla, a mio avviso, senza l’accompagnamento di un ottimo purè, che ne addolcisca in certo modo la potenza, con l’accompagnamento di un buon bicchiere di rosso.

Si chiama anche “salamina” e se il suo nome compare spesso dai diari dei viaggiatori dal Grand Tour in poi, la sua presenza in Ferrara è testimoniata fin dal secolo XV durante il Ducato estense attraverso quanto scrive Antonio Frizzi in un poemetto dal titolo “Salamoide”, edito nel 1722, in cui appaiono anche gli ingredienti e le modalità di cottura.

 

 

Bisogna dire innanzitutto che si realizza una sola salama per ogni maiale macellato, poiché l’involucro è la vescica del suino. Quindi le carni scelte devono essere: fegato e lingua per il nucleo centrale, carne di collo e gola; il tutto ben tritato, intriso di vino di bosco (rinforzato eventualmente con marsala o cognac o rum) e condito con pepe, cannella e chiodi di garofano.

L’impasto va poi accuratamente rimpinzato nella vescica (mediamente l’insaccato deve avvicinarsi al chilogrammo di peso) legata con lo spago e posta ad invecchiare appesa al soffitto o messa nella cenere. Una buona salama deve stagionare in pace almeno un anno, al buio, in luogo fresco ed areato.
Ed ecco uno dei metodi di cottura: “In via preliminare, la salama è immersa in acqua tiepida per una notte, per ammorbidire la parte esterna che dovrà essere delicatamente spazzolata. Deve essere quindi immersa in una pentola d’acqua, avvolta in un telo fine e sospesa, appendendola a uno stecco o un mestolo sul bordo per non farle toccare il fondo. Far bollire a fuoco lento per oltre 4 ore, rabboccando quando è necessario ma senza perdere il bollore. Guai se la vescica si spacca, “..ché il suo sughetto si sperderebbe”.
Della “salama” si occuparono molti storici e fra essi Luigi Napoleone Cittadella, che se ne occupò nelle sue “Notizie relative a Ferrara” del 1864.
Ma sulla tavola ferrarese non deve mai mancare la “coppia”, il pane squisito la cui forma originale sembra stata ideata osservando i “boccoli” di Lucrezia Borgia, allorché giunse a Ferrara per andare in sposa al duca Alfonso d’Este.

 

 

E fu ancoraCristoforo da Messisbugo che, una sera di carnevale del 1536, portò sulla mensa del Duca il primo esemplare di “coppia ferrarese”, che appariva come un pane ritorto, non ancora della forma attuale.
E fu alle soglie del secolo XVII che lo storico Antonio Frizzi, nelle sue “Memorie storiche di Ferrara” ne parlò, definendolo un “pane unico per forma, lavorazione e farina” e Bacchelli disse :“il pane ferrarese è un capolavoro di eleganza, di ingegnosità e di sapore che allieta l’occhio e persuade il gusto”: due pezzi di pasta uniti a forma di nastro nel corpo centrale, la parte morbida, l’unica con mollica, con quattro estremità detti crostini.
E Ferrara propone tutto ciò sia nelle case private che in ogni trattoria o lussuoso ristorante.