Testo e foto di Lorenzo Zelaschi

Mi trovo a qualche chilometro da Kesardesar, una minuscola frazione a qualche decina di km da Bikaner, nel deserto del Rajasthan, o deserto del Thar, India. Io e la mia guida ci siamo arrivati a dorso di cammello. L’ambiente naturale mi ricorda molto il sud dell’Andalusia: il terreno è sabbioso, ma qua e là si trovano degli arbusti che, quando seccano, vengono usati dalla gente del posto per fare il fuoco. Ogni tanto si scorge anche qualche albero, utile ad esseri umani ed animali che vogliono godere di un po’ d’ombra.

 

Mentre stiamo per varcare la soglia dell’arido terreno della casa, Babhu mi informa che qui fino a dieci anni fa non c’era l’elettricità e i campi venivano coltivati con l’aratro. Ora si utilizza il trattore e nella minuscola casa, realizzata in cemento e circondata dal deserto, c’è addirittura una presa per caricare il cellulare; una per tutta la famiglia.

L’elettricità è prodotta da un cubo di metallo di 1×1×1 metri che emana un piacevole tepore e che riscalda la minuscola stanza dove viene spesso messa a sonnecchiare, di sera, la loro bimba piccola. Ceno in quella stanza, seduto per terra con Babhu e con Anita, la figlia primogenita di 22 anni, che va e viene, occupata nell’atto di dispensare chai (il thé) a tutti i braccianti assetati e un po’ infreddoliti. Mi viene generosamente lasciato il posto d’onore, in quanto ospite; quello infatti è l’unico posto caldo della casa.

 

 

Il figlio più giovane Rham, di diciotto anni, è appena riuscito, grazie a molti sacrifici, a comprare uno smartphone di una marca economica; è davvero un oggetto di culto per lui e, dopo che ci siamo scambiati i numeri, mi chiama spesso durante la giornata con WhatsApp. Rham parla poche parole di inglese (è colui che lo parla di più in tutta la famiglia) e per ora, di certo, non riusciamo a comunicare bene perché il mio hindi è allo stesso livello; ma rimane una cosa interessante poiché, ad esperienza finita, le sue videochiamate mi mostrano nuovamente il panorama del deserto.

Anche Anita è molto attratta da quest’oggetto moderno, che spesso è nella mia mano per via delle fotografie, e quando le mostro un video di Ludovico Einaudi su YouTube, i suoi occhi si illuminano nel vedere la chitarra acustica di uno degli elementi del gruppo; ma poi scopro, con mio grande stupore, che non conosce il pianoforte; non ne aveva mai visto uno e non sa cosa sia…

 

Tutto ciò mi riporta alla mente la fiaba della Sirenetta: lei osserva, incantata, e piena di meraviglia le cose più semplici che appartengono al mondo sopra-marino, e che per noi sono ormai scontate e banali. E forse è proprio questa qualità, che di Anita e del posto dove vive, colpisce il cuore; è la stessa purezza che ci riporta alla realtà delle cose importanti, sintonizzandoci istantaneamente con la linfa del mondo quando riusciamo a scorgere il miracolo della vita intorno a noi.

E se è vero che, qui, l’energia elettrica dieci anni fa è arrivata, la sensazione resta comunque quella di salire sulla macchina del tempo. Il capofamiglia è vedovo e si è risposato; e la bimba piccola, che vedete nelle fotografie, è della nuova moglie, ma viene comunque teneramente accudita da tutti gli elementi  della famiglia. Qui le giornate si svolgono tutte assolutamente sotto il sole, che ora in novembre dona una piacevole temperatura massima di 28/30 gradi, per poi scendere di notte intorno ai 10. Ad agosto la temperatura varia da 35 a 50!

 

Ma quello che conta qui, è quanto si inoltra silenziosamente nel cuore con lo stesso calore del sole di mezzogiorno, è la connessione, senza fronzoli, con tutto ciò che di naturale sta attorno alla casa; la semplicità  diventa sinonimo di purezza, e viene da sperare che la presa elettrica per caricare il cellulare rimanga l’unica in casa negli anni a venire. Le stoviglie si lavano rigorosamente con la sabbia – non poi così strano se si pensa che fino al dopoguerra le nostre nonne, in Italia, facevano lo stesso con la cenere.

L’attività di famiglia è la coltivazione delle noccioline; Anita le cuoce sul fornello di primo mattino, in una padella, per far colazione insieme al chai. Il loro sapore è stupefacente perché sono fresche, nulla a che vedere con il prodotto confezionato. Dormo sotto le stelle, sulle tipiche brande intrecciate chiamate charpoy, con i braccianti che ogni giorno e ogni notte vengono a lavorare per la famiglia nei campi. Ora è freddo, e il trattore come una formica operosa continua a mordere il terreno per tutta la notte, poiché i lavoratori si danno il cambio; e l’atmosfera è magica e sospesa per via della finissima sabbia che si solleva e che pervade l’aria.

 

Anita è promessa in moglie e il suo matrimonio avrà luogo a breve, ma come la più dolce delle partner o la più premurosa delle sorelle, alle sei di mattina, prima di iniziare la mungitura di una delle due loro mucche, si avvicina alla mia branda per rimboccarmi con un’altra coperta. La fauna attorno alla casa è composta da cammelli, piccole antilopi, volpi, conigli, coyote e blu bull, chiamati anche nilgai, una specie di grosso cervo con corna corte, simili a quelle di un camoscio. Inoltre qui vivono anche avvoltoi, poiane e falchi.

L’ambiente naturale circostante, privo in questa zona di spazzatura, mi dona molto benessere (scrivo così perché in India è un flagello, e purtroppo, da quando arrivò la plastica intorno agli anni ’50, gli indiani non hanno ancora imparato – o stanno iniziando ora – a smaltirla). E poco importa se la vita qui nel deserto è povera, poiché nonostante ciò è pulita. Certo, i piedi vivono tutto il giorno nella sabbia, ma la natura, che qui è una compagna costante, durante le giornate pulisce l’anima e il cuore grazie allo scintillare delle stelle di notte e delle gocce di sudore di giorno.

 

Lavoro un po’ con la famiglia nei campi per radunare erbacce destinate ad un falò; questa semplice attività è intervallata da qualche chiacchiera (o nel mio caso solo da qualche sorriso) e da qualche bidi, le sigarette indiane più economiche e più naturali, realizzate rollando il tabacco con pezzi di foglie di banano.

La partenza è fissata per le 11.30; me ne andrò sempre a dorso di cammello. Il mio è una femmina e al collo ha una sottile bardatura che sembra una collana. Babhu mi accompagnerà anche questa volta. La mattina sta terminando e mi accingo a salutare tutti, compresa la bimba che all’inizio quando mi vedeva piangeva, ora grazie a qualche carezza, qualche nocciolina, e al mio sacco a pelo, che nelle ultime ore è diventato per lei un divertente giocattolo, sorride. Vorrei dire molto, soprattutto ad Anita, ma in casi come questi bastano i cuori, le emozioni e gli sguardi per esprimerle.